L'impossibile ritorno

 

Amélie Nothomb, "L'impossibile ritorno", Voland, traduzione di Federica Di Lella.

“Nessun continente se ne andrebbe volontariamente alla deriva. Prima delle fratture tettoniche c’erano un solo mare e una sola terra. L’unica isola si chiamava Pangea. L’esilio non esisteva, bastava camminare a lungo e alla fine raggiungevi necessariamente i tuoi.

Qualsiasi partenza è un’aberrazione. Penso di avere  le carte in regola per saperlo: ho passato tutta la vita a partire. I miei genitori diplomatici si trasferivano continuamente, portandosi dietro una prole ogni volta più traumatizzata. Invece di farci l’abitudine, ho sviluppato un’allergia alle partenze”.[1]

Non è la prima volta che Amélie ritorna nel Paese in cui si è insediato un pezzo del suo cuore, ovvero il Giappone, ma il viaggio è per lei sia una gioia sia un supplizio. Amélie vi torna per accompagnare un’amica – Pep – e farle da guida, ma le emozioni che prova sono in contrasto tra loro: ci sono amore e paura, nostalgia e malinconia; c’è persino un senso di vuoto profondo.

“Il verbo ‘abitare’ ha come etimologia il frequentativo del verbo ‘avere’ in latino: avere a lungo corrisponde ad abitare. Ho avuto a lungo Tokyo, e questo possesso è scomparso. Sono stata spossessata di questa megalopoli e comincio solo ora a valutare gli effetti di una simile amputazione”.[2]

Grazie a questo recente viaggio in Giappone, Amélie ritrova la se stessa all’età di 4 anni, la se stessa di “Stupore e tremori”, ma anche il suo rapporto col padre. Viene infatti messa di fronte alla necessità di elaborare il lutto per la perdita del genitore, ma – nello stesso tempo – il viaggio sarà un modo per ritrovare la figura paterna.

Non c’è autocommiserazione nelle pagine de “L’impossibile ritorno”, bensì consapevolezza alla quale l’autrice arriva dopo un’attenta quanto inevitabile autoanalisi.

“Se c’è un’arte nella quale non eccello, è quella del ritorno. Eppure nessuno ne ha fatto esperienza quanto me. Se ne deduce che l’esperienza non insegna niente: continuo a sbagliare i ritorni”.[3]

 “Così ogni viaggio mi lascia diminuita. A restare è meno la bellezza che il vuoto che ha scavato dentro di me. Il mio talento è la mancanza. Non ci sono limiti alla mia capacità di essere manchevole”.[4]

I ricordi, le memorie e la nostalgia sono i protagonisti indiscussi di questo libro. Il momentaneo ritorno in Giappone, infatti, è per Amélie un’occasione per ritrovarsi, così come scrivere è un modo per capirsi e per capire. Per capire – tramite l’incontro tra passato e presente – cosa rappresenti il Giappone stesso, cosa abbia significato allora e cosa significhi oggi, per lei.

“Partire mi appare sempre come una violenza. Eppure si tratta di partenze molto più innocue di quelle della mia giovinezza, visto che sono sicura di tornare. Il trauma è così forte che le mie tenebre interiori non credono al ritorno. Quando Paul Bowles sosteneva che il viaggiatore degno di tale nome è chi non è sicuro di tornare, naturalmente non alludeva al mio caso patologico, perché io invece di vivere questa incertezza con nobiltà metafisica, la sento come la peggiore delle minacce. La notte prima della partenza non dormo mai: sono troppo impegnata a dire addio al mio letto, al mio armadio, alla mia quotidianità”.[5]

Amélie costruisce così uno spazio vuoto dal quale poter contemplare il proprio caos e la bellezza di un Paese che le ha dato tanto, ma che le ha lasciato anche un profondo turbamento. Un vuoto estatico, dunque, nel quale astrarsi da tutto per contemplare sì la bellezza, ma anche la paura e la nostalgia senza lasciarsi sopraffare da nessuna di esse. Un luogo lontano eppure interiore in cui il cervello diventa non-verbale e il tempo cessa di esistere. Un luogo in cui i ricordi sono vividi come se trattassero cose appena accadute in un silenzio fatto di sensazioni e immagini senza nome.

Per Amélie, la nostalgia è una “malattia incurabile”[6], “un sentimento crepuscolare”[7]; è preventiva ma anche retrospettiva[8]; è una sorta di “sbornia analcolica”[9] fatta di “emozioni senza fissa dimora”[10].

E “spostarsi è un’attività pericolosa. Perché mette in luce la vacuità dell’esistenza”.[11]

“La nostalgia è l’espressione di un fallimento, di una perdita”.[12]

Forse siamo così ancorati alla nostra fragile illusione di stabilità e concretezza che qualsiasi cosa ci disallinei o ci allontani da tale centratura mette in pericolo tutto ciò che siamo o crediamo di essere.

Il ‘ritorno’ di Amélie è anche un ritorno in senso letterario, una rilettura (in senso figurato, ma - nel caso di “Controcorrente” di Huysmans - anche letterale) di alcuni libri e di alcuni autori/autrici come Zola, Huysmans, Mishima, Yoshimoto, Nietzsche, Baudelaire, tanto per citarne alcuni.

“Ben più che leggere, rileggere è un atto d’amore. Correre il rischio di mettere alla prova un colpo di fulmine, quando si tratta di un atto così intimo come la possessione letteraria, è una follia”.[13]

“Rileggere permette fra le altre cose di sperimentare l’evoluzione della propria sensibilità”.[14]

Questo libro aggiunge un altro tassello all’autobiografia di Amélie Nothomb e ci aiuta ad avvicinarci a lei e a comprenderla meglio.

Nella scrittura di Amélie non esiste il ‘tiepido’: ogni amore, passione, sensazione, emozione ed azione è potente e lascia il segno. “L’impossibile ritorno” non fa eccezione. Tutto è straordinariamente intenso, una sorta di sogno lucido. Anche se… ho percepito qualcosa che assomigliava ad una forzatura dell’eleganza, quasi un dolore latente dietro al sorriso scaturito dall’avventura del viaggio. Come se l’autrice sentisse di dovere qualcosa a qualcuno: al lettore o magari a se stessa. Forse la tensione di Amélie di riabbracciare quel Giappone a lei tanto caro è arrivata fino a me. Forse era disincanto. O forse il terrore di vivere un conflitto interno che un giorno potrebbe portare a un bivio: riaccendere la fiamma per qualcosa che ho amato e mai dimenticato contro il pericolo di riconsiderare qual qualcosa, di ridimensionarlo o addirittura confutarlo. O, infine, la paura che qualcuno possa ridefinire me…

Comunque sia, questo libro non fa che confermare il talento di Amélie Nothomb di leggere l’animo umano e il coraggio nel mettere a nudo il proprio.

“Nell’ambito della mia vita l’eterno ritorno dell’identico consiste nell’andare in Giappone e accorgermi che questo ritorno è impossibile […]”.[15]

Se desideraste leggere altri articoli su questa autrice, vi lascio qui di seguito un paio di link all'altro mio blog:
E, se ancora non vi bastasse, potete andare a sbirciare sul mio profilo Instagram principale: @barbagallo_manuela   Lì troverete altri post su Amélie Nothomb.

[1] Incipit, p. 7

[2] P. 48

[3] P. 100

[4] P. 102

[5] Pp. 8-9

[6] P. 19

[7] P. 23

[8] P. 42

[9] P. 21

[10] P. 21

[11] P. 16

[12] P. 101

[13] Pp. 53-54

[14] P. 64

[15] P. 105

 

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